Premessa
Per afferrare appieno l’importanza della battaglia di Castelfidardo e le sue conseguenze di vasta portata storica, è necessario tracciare brevemente un quadro sulle premesse politiche che l’hanno originata.
Come fatto d’armi in sè, è risaputo, fu limitato, tanto che quel mattino del 18 settembre 1860, sulle colline e nei dintorni di Monte Oro non presero nemmeno parte tutti gli effettivi dei due eserciti antagonisti, quello pontificio che intendeva aprirsi la strada per raggiungere la piazzaforte di Ancona e quello piemontese che voleva impedire questo tentativo.
Ma, ad essere battuto a Castelfidardo era l’esercito mobile dello Stato Pontificio del Lamoricière su cui contavano il Papa Pio IX, il Ministro delle Armi mons. De Merode ed il cardinal Antonelli per rinforzare Ancona in attesa di un eventuale intervento straniero. Ed a vincere la battaglia era l’esercito italiano che cementava col sangue la raggiunta unità e rompeva l’ultimo diaframma che divideva il Nord dalle terre del Sud.Ecco allora dilatarsi i termini del combattimento che acquista, così, il rilievo degli eventi decisivi.
I presupposti politici e diplomatici
Nei fatti del 1860 si colloca il duplice filone delle vicende militari italiane: guerra professionale, con l’esercito piemontese felicemente collaudato nella prova del 1859 che vantava coesione e organicità e che si era dimostrato degno delle migliori tradizioni, e guerra per bande di popolo che si combatteva vittoriosamente nel Sud con Giuseppe Garibaldi, l’insuperato maestro del 1848, 1849 e 1859. Castelfidardo è il centro cui confluiscono i due movimenti: la spinta popolare dal Sud e quella monarchica moderata dal Nord. Al contrario, l’apparato militare pontificio, con il reclutamento di volontari esteri (almeno sette erano le nazionalità che lo componevano) si presentava all’insegna della eterogeneità e del più accentuato cosmopolitismo. Lo Stato della Chiesa aveva sempre contato su milizie straniere. In alcuni casi questa era stata la sua forza, ma alla fine rappresentò, militarmente parlando, la fine del potere temporale, allorché giunse a maturazione quella crisi di cui Castelfidardo costituì una anticipazione, anzi la promettente avvisaglia.
Come è noto Io Stato Pontificio, in caso di invasione da parte dell’esercito piemontese, contava molto sull’aiuto della Francia In un dispaccio inviato il 10 settembre 1860 al Lamoricière, il cardinal Antonelli diceva: “l’imperatore dei francesi ha scritto da Marsiglia al Re di Sardegna per annunziargli che ove le truppe piemontesi entrassero nel territorio pontificio, sarebbe egli obbligato ad opporvisi e che a tale effetto ha dato ordini affinchè si aumenti la guarnigione di Roma”L’abile diplomazia del Cavour aveva avuto però buon gioco con Napoleone III nell’indicargli i motivi che sconsigliavano un intervento della Francia tanto che questi si limitò a redigere una protesta diplomatica contro il Piemonte lasciando in pratica mano libera allo statista piemontese.
E così, dopo che il capitano Farini, aiutante in campo del generale Fanti, consegnò al Lamoricière (era il 10 settembre) una lettera dello stesso Fanti con cui si informava che per ordine del Re di Piemonte le sue truppe avrebbero occupato immediatamente le Marche e l’Umbria in caso si fosse adoperata la forza per reprimere “manifestazioni nel senso nazionale” (come si vede, più che altro un pretesto), l’11 settembre 1860 l’esercito piemontese passava il confine ed invadeva Io stato pontificio.
In un proclama alle truppe dello stesso giorno, il Gen. Cialdini affermava: “vi conduco contro una masnada di briachi stranieri, che sete d’oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi. Combattete, disperdete inesorabilmente que’ compri sicari; per mano vostra sentano l’ira di un popolo che vuole la sua nazionalità, la sua indipendenza…”
I presupposti politici e diplomatici di Castelfidardo erano posti. Sette giorni dopo si sarebbe combattuto sulle colline di Monte Oro.
Gli schieramenti
I quadri dei due eserciti che presero parte alla campagna delle Marche e dell’Umbria dall’11 al 29 settembre 1860 erano questi:
Regio esercito – armata delle Marche e dell’Umbria: due corpi d’armata, il 4° (divisione quarta, settima e tredicesima) al comando del generale Enrico Cialdini, ed il 5° (divisione prima e divisione di riserva) guidato dal generale Della Rocca. Il comando dell’armata è affidato al Fanti. In totale 39 mila uomini, 2500 cavalli e 77 pezzi d’artiglieria.
Esercito Pontificio – Il comandante in capo, il generale francese Cristoforo De Lamoricière, aveva così distribuito l’esercito sul territorio che doveva difendere: 1^ brigata generale Schmidt con quartiere generale a Foligno, 2^ brigata generale marchese De Pimodan con quartiere generale a Terni, 3^ brigata generale De Courten con quartiere generale a Macerata; una brigata di riserva agli ordini del colonnello Cropt con quartiere generale a Spoleto: 10 mila uomini con 30 pezzi d’artiglieria. A questi vanno aggiunti gli effettivi della piazza di Ancona, circa altri 10.000 uomini.
La battaglia
Il generale Fanti, comandante delle truppe piemontesi, si riprometteva di muovere con il 4° corpo d’armata (la sinistra) lungo l’Adriatico, per attirare Il nemico verso Ancona. Il 5° corpo (la destra) doveva intanto avanzare verso la valle del Tevere e tagliare la ritirata su Roma all’esercito pontificio che in tal modo sarebbe stato costretto a dare battaglia in condizioni di netta inferiorità numerica.
Il Lamoricière intendeva invece raggiungere Ancona per costituire una minaccia sul 4° corpo d’armata piemontese ed attestarvisi in attesa di un intervento austriaco o francese. Il comandante francese, il giorno 12, era partito da Spoleto con alcuni battaglioni dei suoi uomini, seguito dal Pimodan, partito da Terni con altri 4 battaglioni e 300 cavalli. Fu una marcia forzata attraverso Foligno, Tolentino e Macerata, in quanto era importante giungere prima delle truppe piemontesi. Il 15 il Lamoricière era a Macerata. Attraverso la pianura del Potenza giunse a Portorecanati dove imbarcò il tesoro destinato ad Ancona. Da Portorecanati il Lamoricière si portò a Loreto la cui altura aveva occupata insieme a quella di Recanati.Ma sentiamo Io stesso Lamoricière nella sua relazione al Ministro delle Armi di Pio IX, mons. De Merode:
“Sebbene avessi promesso due ore di riposo all’infanteria che sostava a Porto Recanati, la diressi immediatamente su Loreto, dove ci stabilimmo durante la notte. Partito da Macerata alle due del mattino era passata mezzanotte quando le truppe cominciarono a riposarsi. La notte impediva di vedere le truppe piemontesi e gli abitanti dicevano che i ponti fuori della città erano tagliati e che s’erano fatti indietro dei trinceramenti. Il capitano Palffy volle accertarsi di ciò che vi fosse di vero in questa relazione e s’incamminò per la strada che mette a Camerano con qualche gendarme e un volontario a cavallo; il sig. De Pas, arrivato presso il primo ponte, a mille metri circa da Loreto, ricevette due colpi di cannone a mitraglia, che uccisero il suo cavallo e ferirono a morte il sig. De Pas e un gendarme. Questo sgraziato accidente servì tuttavia per farci conoscere la distanza a cui trovavasi il nemico”.Il 4° corpo d’armata piemontese, varcato il confine, si diresse su Pesaro, Urbino e Fano e raggiunse Senigallia. Il giorno 15 occupò Jesi. Ed ecco gli avvenimenti descritti dal Fanti nella sua relazione del 30 settembre 1860 al Re:
“Le informazioni che giunsero in questo frattempo al 4° corpo, lasciando supporre che la colonna comandata dal generale De La Moricière a marce forzate, tentasse, per la strada di Tolentino e Macerata, gettarsi in Ancona, il generale Cialdini, con la sua accostumata avvedutezza, ed a prevenire il nemico, si portò ad occupare le importanti alture di Osimo e di Castel Fidardo, spingendosi fino alle Crocette, per sbarrare la via al generale avversario, mediante una marcia forzata di 38 miglia in 28 ore”.
Questa rapida mossa del Cialdini era destinata a produrre un grosso risultato per l’esito della campagna. Fu contro queste posizioni che si sviluppò l’attacco pontificio il 18 settembre. La prima colonna cominciò a marciare da Loreto alle ore 8 e un quarto; la comandava il generale Pimodan. La seconda alle 9.Continua il Fanti nella sua relazione:
“Nel mattino del 18 una forte colonna guidata dal generale Pimodan attaccò furiosamente le nostre posizioni avanzate verso la confluenza del Musone con l’Aspio, urtandosi nel 26° battaglione bersaglieri che vi era a guardia e lasciando, per l’impeto, incerto se fosse questo un finto attacco… (il Cialdini giudicava in transitabile dai carri il fiume Musone, grosso di acque)… Il 10° reggimento fanteria, comandato dal colonnello Bossolo, avanzò a sostegno del 26° battaglione bersaglieri che combatteva valorosamente e in piccolo numero.
Le colonne del generale Pimodan sono respinte con una vigorosa carica alla baionetta e i nuovi assalti che quel generale ritenta le varie volte per riprendere il ciglio dominante della posizione, si rompono contro la solidità dei nostri; e quando altre colonne, guidate dallo stesso De La Moricière, si presentano profonde, e di tutta loro forza sul punto ove si combatte, fra S. Casa di Sopra e S. Casa di Sotto, trovano di nuovo la resistenza pari all’urto; mentre l’occhio vigile del generale Cialdini, facendo accorrere altre forze, sgomina, e respinge per tutto il nemico che combatte da disperato e si difende con accanimento nelle cascine, e travolgendolo oltre la destra del Musone, lo costringe, inseguito vivamente dai nostri che fecero oltre 400 prigionieri, a riguadagnare disordinatamente Loreto, lasciando sul campo di battaglia l’artiglieria, i cassoni, il bagaglio, un’infinità di armi e di zaini gettati nella fuga e tutti i suoi morti e feriti, tra i quali, morente, Io stesso generale Pimodan… Il generale in capo De La Moricière, vista la rotta de’ suoi, abbandona il campo di battaglia e con una trentina di cavalieri riesce, con rapida corsa, a guadagnare Ancona lungo la marina”.
L’altra direzione in cui si dirigeva contemporaneamente il flusso dei fuggiaschi era Loreto. Approfittando della notte il generale Cialdini faceva intanto occupare Recanati e le zone circostanti, sbarrando in tal modo ogni possibile ritirata al nemico. Il mattino dopo i pontifici, circondati da ogni dove, capitolano. Più di 4000 uomini con le rimanenti guide del Lamoricière depongono le armi a Recanati. La battaglia era costata agli italiani 55 uomini di truppa e 6 ufficiali morti. 173 uomini di truppa e 11 ufficiali feriti. Ai pontifici 88 morti raccolti sul campo e 600 prigionieri, 3 pezzi d’artiglieria e una bandiera; secondo i loro rapporti, i feriti sarebbero risultati circa 400.
L’esercito mobile dei pontifici era distrutto. La sorte di Ancona era segnata: dopo pochi giorni di assedio la piazzaforte sarebbe caduta. La via del Sud era aperta alle truppe di Cavour e di Vittorio Emanuele. Ben diversi sarebbero stati gli sviluppi della spedizione dei Mille nel meridione se la resistenza dei pontifici fosse durata più che i brevi diciotto giorni del settembre 1860; la prevalenza dei moderati nella soluzione unitaria che si prospettò nell’ottobre successivo probabilmente non sarebbe stata ristabilita con altrettanta rapidità.
Ma la battaglia di Castelfidardo costituì ugualmente una tappa liberatrice: come Solferino lo era stato per le province lombarde, così Castelfidardo significò la fine delle dure vigilie, dei decenni di cospirazioni e di repressioni per le Marche e per l’Umbria. Grazie a quell’avvenimento, genti, città e campagne entravano a far parte di una comunità più grande, quella dell’Italia che si stava unificando.
Senza Castelfidardo non sarebbe pensabile, esattamente dieci anni dopo, Porta Pia.
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Comune di Castelfidardo